Ogni epoca ha il suo tempo e ogni tempo ha le sue peculiarità. Noi viviamo un epoca in cui i risultati quantificabili sono una delle unità di misura più utilizzate; è l’epoca della performance, in cui vieni pesato in base ai risultati prodotti in un determinato periodo di tempo. Questa logica è figlia di una cultura economicistica, che tende a quantificare anche il valore della vita. Vite non tanto considerate perché persone, quanto piuttosto come unità produttive, o consumatrici, o apportatrici di risultati monetizzabili.
La sofferenza e la malattia scardinano questi sistemi. Sono quei deficit o anormalità che mettono in crisi il sistema produttivo e quindi le regole delle unità produttive. Se un elemento della linea produttiva non funziona, lo si cambia, perché «business is business». Può apparire una lettura pessimistica o addirittura fuorviante della realtà che viviamo – ci piacerebbe che così non fosse – ma il principio di realtà si impone.
Molte persone si sentono così, non più produttive, a rischio sostituzione. Quando la malattia irrompe nella loro vita crea una serie di disconnessioni: da sé stessi, dal proprio mito di onnipotenza e certezza; dagli altri, perché ti vedono in maniera diversa, ora sei “il malato”; dal tuo rapporto con Dio, in quanto sorge prepotente la domanda di senso: «perché io?». Papa Francesco nel recente Messaggio per la XXXII Giornata Mondiale del Malato sollecita le persone malate: «Non pensate mai di essere un peso per gli altri», un peso che può essere percepito come affettivo o talvolta economico.
La malattia, oltre che la dimensione biologica, ridefinisce le relazioni, crea solitudine, ci mette a rischio di isolamento. Il Santo Padre ci offre invece una visione relazionale della malattia e della sofferenza. Guardando oltre il vissuto biologico, le relazioni ferite aprono una crisi di senso che chiede di essere curata. Non basta la terapia medica o farmacologica per una presa in carico globale della persona malata, serve una cura che comprenda «una vicinanza piena di compassione e tenerezza».
Nella formazione del personale sanitario da molto tempo sono stati rimossi i concetti legati all’empatia. Un forte pensiero scientista ha ridotto la persona all’organo malato e, di conseguenza, la relazione di cura si riduce soltanto alla ricerca di una terapia efficace. Il sistema tecno-medico ha perso il suo movente originale e oggi si trova disorientato. Abbiamo diagnostica, protocolli, farmaci, linee guida, ricerca medica di altissimo livello; siamo molto più bravi e competenti rispetto a pochi decenni fa. Ma siamo tutti insoddisfatti.
Persone malate che non si sentono curate. Curanti che faticano a trovare il senso ultimo del loro agire. Manca a tutti il bello della relazione, necessaria per la vita, che è per sé stessa relazione. Papa Francesco sottolinea che «Fin dal principio, Dio, che è amore, ha creato l’essere umano per la comunione, inscrivendo nel suo essere la dimensione delle relazioni. Così, la nostra vita, plasmata a immagine della Trinità, è chiamata a realizzare pienamente sé stessa nel dinamismo delle relazioni, dell’amicizia e dell’amore vicendevole». Non c’è nulla di più umano e divino insieme che l’uomo-in-relazione. Ecco perché il Santo Padre ci aiuta a riflettere sul fatto che curare il malato si deve fare curando soprattutto le relazioni.
Questa è la vocazione primaria di tutta la comunità cristiana e della pastorale della salute. Farsi vicino ai malati e ai sofferenti, evitare loro solitudine e isolamento, porli al centro del vissuto della comunità, così che ne siano membri e protagonisti, anche e proprio nella malattia, a pieno titolo. La migliore risposta alle spinte individualiste della società e del mercato è prendere questi scartati, perché non più produttivi, e renderli perno della comunità: curati da noi e salvati dal Cristo. Perché per noi sono persone, sempre e comunque, in qualsiasi condizione di salute si trovino, mai riducibili a numeri. Persone, con la piena dignità degli uomini e delle donne, feriti ma mai imperfetti, fragili ma sempre capaci di vivere la storia della vita.
Don Massimo Angelelli